Parole pensierose

Da piccola

Da piccola mi capitava di immaginare la me del futuro. Mi capitava di guardare i vestiti di mia mamma, di provarli e dirmi: «Questa sarò io tra un po’ di tempo». Facevo la stessa cosa con le scarpe, di qualsiasi modello, ma quelle con il micro-tacco mi hanno sempre attirata. E mia mamma era alta come me ora, quindi parecchio, e di tacchi non ne ha mai voluto sapere troppo. Dicono che con la “vecchiaia” i centimetri si abbassino: un sogno, direbbe la me quindicenne. In parte e a volte lo dico ancora, che di anni ne ho il doppio quasi +2, pur rimanendo quella bambina che guardava la sé del futuro con gli occhi curiosi.

Mi piaceva immaginare, mi piaceva talmente tanto che per anni ho pensato si potesse vivere così: di immaginazione e curiosità. La pozione perfetta per restare dentro una pallina di vetro, scuoterla all’occorrenza…e scuotersi un po’ anche dentro. Ma io con l’immaginazione ci ho fatto un sacco di cose, ci ho scritto un sacco di cose, mi sono sentita un milione di persone dentro un corpo solo.

Come quella volta, era un normale cambio armadio, e in mezzo alle montagne di vestiti tenuti e ritenuti ancora abbastanza portabili, ho capito che ero stata qualcuna, l’anno prima. Quella che in quel momento e con addosso quel maglioncino di lana con le spalline a sbuffo, non era più. O forse era un paio di jeans skinny a vita bassa, o forse entrambe le cose abbinate. Ero stata io, ma l’avevo persa da qualche parte per lasciare spazio a una nuova versione. Un po’ Mickey17, ma senza offrirsi “sacrificabile” e senza morire ogni volta e rinascere. Molto di più.

Ho immaginato come sarei stata da grande, ho visto le persone attorno a me cambiare; sì, ma non come cambiavo io. Io andavo a rilento – l’ho sempre fatto (o per lo meno a me è sembrato), ma era un continuo evolversi senza che fuori da me cambiasse realmente qualcosa. Mi piaceva l’idea di mutare, ma mi ha sempre spaventata la conseguenza nascosta dietro l’angolo. Io o non io? Chi sono ora e chi sarò poi? Anche questo mi chiedevo, pur continuando a immaginarmi ovunque uguale, ovunque nel mondo. Perché è così che ho sempre fatto, perché è così che sempre farò: fedelmente me stessa nell’immaginarmi diversa, pur non cambiando mai…all’apparenza.

Non riesco a quantificare le sfaccettature che di me ho preso, perso, stravolto, accartocciato e spesso – purtroppo – ferito. In tanti modi. Fa parte del processo? Così dicono. E in fin dei conti è servito tutto, pur non essendo affatto cambiato molto. Da piccola sognavo un mondo e oggi quel mondo è ancora là, a fare capolino quando la notte la melatonina tarda a fare effetto, lo spray rilassante sul cuscino entra dentro i polmoni e i capelli si preparano a stravolgersi. Quei riccioli biondi da bambina mica li capivo, mica li apprezzavo; ne ero indifferente, finché non li ho tagliati e, in piccola parte, persi del tutto. Andava fatto, per tagliare una parte e ospitare quella nuova, anche se al posto di quella frangetta alle elementari si sarebbe potuto fare tutt’altro…che sarebbe stato meglio. Vabbè.

Ma il cambiamento era lì, è sempre stato lì: dalle trecce davanti a Franklin Tartaruga alla spazzola di legno durissima per tirare la coda alta di cavallo. E poi il diastema. E poi la cicatrice. E poi tutte e due ma al contrario, perché è venuta prima la cicatrice del diastema e poi alla fine questo si è chiuso e quella è rimasta. Lieve e biancastra, si fa notare quando si abbronza, ma rimane lì.

A dirmi chi sono stata ci pensano i segni, a dirmi quanto sono cambiata ci pensa la testa. Da bambina ho immaginato tutto, ma non ho mai immaginato quanto dispendioso – in energia, ancora – sarebbe stato tenere a bada la testa. E cavolo, è quella che richiede più tempo, è quella che cambia più di tutti e a volte pure in fretta. Mica avverte, mica ti chiede il permesso: un po’ come la pelle, o come il corpo quando reagisce, guarda caso e quasi sempre, a uno scompenso mentale.

Da bambina non me l’ero immaginato mai, come sarebbe stato vivere dentro una testa mutevole in modo così profondo, dentro una pelle che cambia o dentro un corpo che per certi versi sembra non essere cambiato mai. E lo ha fatto, eccome. Non l’ho mai immaginato, forse perché dentro quella pallina di vetro non c’era spazio per tutto, forse perché indossando quei micro-tacchi di mia mamma avevo già visto tutto quello che mi bastava per camminare dritta.

Con i ricci, il diastema e la cicatrice. E possibilmente senza skinny jeans, poi per le maniche a sbuffo ci pensiamo.

Mi manca essere bambina come lo sono stata. A volte mi chiedo dove io sia finita, ma ci sono piccole micro-cornici di esistenza che mi rendono consapevole. Una smorfia, una linguaccia, quello strano modo di sedermi a tavola quando faccio colazione, o quel modo di tenere la penna. Indossare le maglie sempre così e toglierle facendo fare il giro delle braccia come se fossi di gomma. O legare le scarpe esattamente come la prima volta, o il suono ciondolante dei passi, e quello dell’anca quando scatta, arrossire per le dolcezze, imbarazzarsi degli occhi, litigare col disordine, strappare le pagine, la pizza con le patatine, le farfalle e i profumi. Le guance e le fossette, gli occhi sognanti, anche quando è più difficile.

Da piccola mica lo sapevo. Da grande non so ancora nulla: quindi? Cambio e ricomincio, aumentando il grado di difficoltà del puzzle. Non mi sono mai piaciute le strade facili: ho sempre preferito incasinarmi tutta per bene, cadere giù, starci anche un po’, godere non poco nel farlo, e poi ricominciare a salire.

Da piccola. Da grande. Dalla stessa profondità di sempre. Essere neve, scuotersi ancora, diventare eclissi, fenice e poi sole. Succederà, succede sempre: da piccola l’ho immaginato.

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