Seppur cadendo, in tempi lontani vidi qualcuno che mi salvò per strada. Era un tiepido maggio, alle porte dell’afa, quando la pioggia faticava a sfiorarmi ma la si percepiva spesso nell’aria.
Quella sera, non ci fu molto da dire; quella sera caddi e vidi specchi fluttuare sopra di me. E fu bello, e fu strano, fu triste e scrissi qualcosa sulla parete che mi ospitò stanca, scrissi qualcosa su pensieri appesi su quella luce fredda che ancora ricordo.
Parlare mi venne difficile, coprirmi spontaneo, lasciarmi e sentirmi fu ardua sentenza, arduo passo verso il Paradiso, forse l’Inferno, forse dentro manciate di parole troppo lontane per bagnarsi di ombre cinesi.
Tuttavia pareva magia primaverile, ignara dei giorni a seguire, delle grandi conquiste e di tutte le perdite lasciate su un sedile o aldilà di uno smartphone. Parlare, ascoltare, ridere e piangere, fare una pausa, due, tre, centomila silenzi. Eppur ricordo di aver urlato a qualcuno, su qualcuno, con qualcuno lungo un muro pieno di scritte, in un angolo buio, in una città che pareva essere mia padrona, mia onnipotente regina, inchinarmi, specchiarmi e accucciarmi fino ad addormentarmi.
Così passeggiavo nella piazza che non è tonda, non ha forma propria ma raccoglie dubbi e abbracci, si attorciglia in mezzo ad anelli, si accartoccia se le fai male, si dipinge di grigio quando comincia a fare freddo.
Passeggiare era l’antidoto per sentirmi leggera e svuotata di quelle cadute prima di essere salvata, era il rifugio delle stranezze della mente, delle paure dentro un ritorno ritardato, un piccolo buio addormentato che invece sostava vigile e attento, era una sosta per l’udito, per le mani che colpivano il cemento, per il sale dagli occhi alle due di notte.
Divenne presto e per un lungo periodo amica fragile, una catena per l’anima che tentava di abbracciare casa sua, quella lontana senza l’angolo subito dietro la via. Più passavano i giorni, più il caldo cominciava ad annegare e sciogliersi sui suoi muretti monocromatici, su quei ciottoli invasivi e fastidiosi quando c’erano 30 gradi. Sempre sarò grata, sempre ricorderò con piacere un posto apparentemente così triste, così asettico e insignificante, un via vai di persone e cose, di oggetti e di scarpe, di soldi e di parole, sogni infranti, ombrelli pieghevoli e bucce d’arancia, sigarette a terra, tappi di bottiglia e soste silenziose con le cuffie nelle orecchie.
Quella sera di maggio non mi salvò nessuna piccola ombra di lei, nessun caratteristico sassolino, nessuna goccia di pioggia e nemmeno un angolo di strada a notte fonda.
Seppur cadendo, mi accorsi di non essere sola in quel piccolo mondo che lentamente mi aveva chiamata a farne parte correndo, sostando, respirando a pieni polmoni quell’afa e quel freddo ghiaccio insieme, quello stesso spicchio di terra incollarmi al suolo, chiamarmi col mio nome e con il nome di chiunque passasse di lì.
Seppur cadendo, quella sera di maggio, ho sentito vibrare il contorno dell’anima impigliata, in segreti e delusioni, in paure e stare bene, confidenze e pagine strappate; ho sentito, per la prima volta, di non essere poi così diversa da tutta la miriade di gente che va, passa e calpesta costantemente e incessantemente pezzi di cemento incastrati dentro la pelle, sotto i piedi, dentro il cuore, sopra la testa, per le mani di chi resta, per i profumi di chi sosta come me ma che poi – senza voltarsi – se ne va.
Caddi e rimasi, per un secondo e poco più, a vedere sopra di me tutto quello che c’è, quel poco che vedo per quello che sono, storie di passi verso l’infinità delle cose.